fashionduelSiamo agli sgoccioli con i saldi e si cominciano a vedere le sfilate autunno-inverno di alta moda…Greenpeace lancia una sfida agli stilisti…

Alla moda di Greenpeace, ovvero: non solo saldi

La campagna The Fashion Duel, testimonial Valeria Golino, ha infatti denunciato che migliaia di ettari della foresta Amazzonica vengono bruciati per far posto agli allevamenti bovini per la produzione di borse, scarpe, cinture in pelle.

L’habitat delle tigri di Sumatra viene convertito per il packaging (carta, scatole e sacchetti per gli acquisti) che finisce nel cestino della carta straccia. In Cina, Messico e altre regioni del Sud del mondo, l’uso di sostanze chimiche tossiche nei cicli produttivi dell’industria tessile compromette gravemente le risorse idriche globali.

Prodotti garantiti

Per questi motivi, Greenpeace ha sfidato su questi parametri le grandi case di moda ad assicurare a ogni consumatore che i prodotti acquistati a caro prezzo non abbiano contribuito alla deforestazione o all’inquinamento delle risorse idriche del pianeta.

A quindici note case del settore sono state inviate venticinque domande su alcuni segmenti delle loro filiere, come uso della pelle o della carta per i packaging e produzioni tessili. Alcune hanno accettato la sfida e hanno risposto al questionario, altre invece no.

Ecosostenibili

Sulla base delle risposte, ecco la classifica dei marchi più ecocompatibili secondo Greenpeace:

Via libera per Valentino: l’azienda si è impegnata a seguire politiche di acquisto e produzione Deforestazione Zero per la pelle e il packaging e Scarichi Zero nella propria filiera tessile.

Semaforo giallo per Giorgio Armani, Dior, Gucci, Luis Vuitton impegnati da tempo in una politica di Deforestazione Zero, ma ancora lontane dall’abolizione di sostanze tossiche nei tessuti.  Buone politiche di risparmio sul packaging per Versace e Ferragamo, ma mancano ancora impegni vincolanti per gli acquisti della pelle e la produzione dei tessuti liberi da sostanze tossiche.

Non ci sono ancora certezza per Roberto Cavalli. Non hanno risposto Alberta Ferretti, Chanel, Hermes, Prada, Trussardi e Dolce & Gabbana, nonostante le molteplici richieste di Greenpeace.

Dietro il luccichio delle passerelle c’è infatti una delle industrie più inquinanti: dal filato al capo finito, si impegnano circa duemila prodotti chimici, molti dei quali tossici, che spesso finiscono nei fiumi e nelle falde dopo l’uso.

E la globalizzazione?

Il Ministero dell’Ambiente in Cina, Paese leader nel tessile e dunque il più esposto all’inquinamento e che su questo fronte sta dimostrando un impegno sulla lunga distanza, ha chiesto a tutte le industrie tessili di rendere noto cosa sversano nei fiumi e, nel piano quinquennale anti inquinamento, ha annunciato la messa al bando delle sostanze chimiche usate nel tessile, in particolare proprio quelle al centro delle campagne di Greenpeace come gli ftalati che interferiscono con l’equilibrio ormonale soprattutto degli addetti alla produzione.

Come si vede le ragioni per indignarsi non mancano, ma ciò vale in particolare per i consumatori ai quali spetta però l’onere di informarsi bene su cosa c’è sotto ai vestiti che indossano (e non parliamo della biancheria intima).

 

Ti potrebbe interessare anche:

Moda sostenibile: siamo al verde

Food and Fashion: lo shopping con gusto